Ogni 100 litri d’acqua utilizzati a livello globale dall’uomo, 70 litri sono destinati all’agricoltura. In altri termini, in Italia il settore agricolo consuma 16 miliardi di metri cubi d’acqua. Il 40% del consumo idrico nazionale. Occorre fare i conti con questa domanda d’acqua e con i cambiamenti climatici che alternano periodi prolungati di siccità a inondazioni catastrofiche, come va ripetendosi sempre più spesso lungo l’asta del Po in Emilia Romagna. Di grande aiuto tutte le tecniche di deficit idrico controllato che consentono risparmi enormi quando l’acqua manca. Ma non si devono dimenticare gli insegnamenti legati alla scelta del sito, delle varietà, dei portainnesti, delle forme di allevamento, della gestione del suolo
◆ L’analisi di PAOLO INGLESE
Quando io ero un giovane studente di Agraria, a Palermo, a cavallo tra gli anni 70/80, esisteva ancora l’arboricoltura asciutta; di fatto, tutte le specie, tranne gli agrumi erano allevate in asciutto. Irrigare olivo e vite era una bestemmia. Il mito era Israele e la sua capacità, come si diceva allora, di trasformare il deserto in un giardino. Oggi, esistono prove sperimentali per irrigare il grano duro e nessuno immagina di poter piantare un frutteto o un vigneto senza risorse idriche. Nel nord Italia si è arrivati a irrigare la vite e il fabbisogno estivo dei frutteti è cresciuto esponenzialmente, nel tempo. È il costo della frutticoltura intensiva e oggi è quello dell’olivicoltura intensiva, entrambi impossibili senz’acqua.
In tutto questo tempo siamo diventati sempre più bravi a ottimizzarne l’uso, con sistemi di misurazione del fabbisogno e di distribuzione dell’acqua sempre più raffinati e precisi. Ma non basta. In verità, a volte si cerca di fare quadrare il cerchio, inutilmente. Cosa voglio dire? Se si pensa di programmare sistemi agricoli ovunque, senza alcuna idea di vocazionalità ambientale, se i costitutori delle nuove varietà lavorano avendo come obiettivo la produttività, se i portinnesti sono sempre più deboli e sempre meno “rustici”, se il numero di piante per ettaro aumenta, potremo pure diventare precisissimi, avere i più straordinari sensori che il mercato ci mette a disposizione, ma la verità è che è il progetto di frutteto, fin dalla sua costituzione genetica, ad essere energivoro e idrovoro. Se poi, vogliamo frutta perfetta, turgida, luminosa, priva di difetti, sarà ancora una volta l’acqua a diventare il fattore critico. Quanto ci costa questa bellezza estetica? Siamo sicuri che chi vive in città, abituato ad aprire un rubinetto e vedere scorrere l’acqua, sarà sempre disposto a consentire questa continua crescita di consumi in campagna?
Nei miei anni di studente di Agraria, ricordo di aver studiato, con buon profitto, una stupenda materia che era considerata importante, seppur opzionale; si chiamava Principi e tecniche di aridocoltura. Quello che imparavamo erano tecniche secolari di gestione del suolo, della pianta e dell’acqua delle quali pensammo, ingenuamente, di esserci liberati, quando la rivoluzione idrica portò l’acqua nelle campagne, quasi ovunque. Un errore grave. Oggi, il problema va affrontato non certo ricorrendo all’antico, come immagina chi crede che la soluzione sia nel recupero delle cultivar tradizionali, come sono, ad esempio, i “grani antichi”, ma neanche pensando che l’agricoltura smart, i droni, le mappe termiche, i sensori dell’ultima o della prossima generazione ci daranno la soluzione ad ogni problema. Ancora una volta, la risposta è soprattutto nella migliore agronomia, nella profonda conoscenza delle relazioni tra pianta o sistema produttivo e risorsa idrica.