L’editoriale di MASSIMO SCALIA
soffrire […]
o prender armi contro un mare d’affanni
e, opponendosi, por loro fine?
William Shakespeare, Hamlet (atto terzo, scena prima)
MASCELLONE PENDENTE E CHIAPPE strette, assicurano i suoi valvassori, aggiungendo, ma solo a patto del più coperto anonimato, di averlo visto girare con in mano quel busto che si è fatto fare — fronte inutilmente pensosa — interrogandolo amleticamente, come fosse un novello teschio di Yorick: “E mo’ che minchia dobbiamo fare?” Eh sì, perché la sortita del colosso globale Exxon, da decenni celebrato re dell’Oil & Gas, di ricorrere al tribunale del Lussemburgo contro la tassa sugli extraprofitti approvata dal Consiglio europeo a settembre scorso pone la questione se anche l’Eni debba adire legalmente contro la Ue per porre fine ai “colpi di fionda e dardi d’oltraggiosa fortuna”. Segnalando in questo modo anche l’inaccettabilità di quei veri e propri insulti, nazionali in questo caso, dei prelievi, sia pure limitati, sui sovraprofitti degli enormi ricavi dell’ultimo anno. Per i quali prelievi si è adoperato, senza sudare beninteso, lo statista dal sorriso largo quanto la sua comprensione per il ruolo dell’Eni. Che poi ci fosse uno squalo a governare l’Ente creato da Mattei, oltre a tutta la politica energetica italiana, transeat. Nessuno è perfetto.
La questione è giuridicamente sottile perché in effetti non risultano precedenti in cui la Ue, in quanto tale, legiferi in materia fiscale, che, sicuramente come prassi, è demandata agli Stati nazionali. Come confermano le ricorrenti raccomandazioni della Commissione a “omogeneizzare” le percentuali erariali imposte dai singoli Stati. L’obiettivo, poi, della Commissione di recuperare fino a 25 miliardi di euro per contribuire a «ridurre le bollette energetiche» per cittadini e imprese è un vero sconcio, un pessimo esempio che fa temere che anche la Meloni, in ansia di “sovranità energetica nazionale”, possa magari fare qualche sciocchezza. Per fortuna che la Exxon, in realtà Exxon Mobil dopo la fusione, ha fatto capire a tutta la Ue che trattamenti del genere minano l’affidabilità dell’Europa sul mercato e stornano da lei investimenti (un irato “fuck you” nell’untuoso stile Oil & Gas). Ma il ricorso contro la Ue resta una mossa che per l’Eni, che non ha sede a Irving (Texas), potrebbe essere azzardata. Sotto vari profili.
E così prendo atto con piacere delle contraddizioni che si aprono, amplificate dalla pluralità di soggetti e istituzioni che le democrazie ci dispensano, frutto di elaborazioni e travagli secolari. E la reazione rabbiosa dell’Exxon Mobil mi sembra proprio il colpo di coda del Tirannosauro, che percepisce, nell’affacciarsi di nuove scelte energetiche ed economico-sociali conseguenti, quell’“inizio della fine dell’era del petrolio”, quale salutammo in molti l’Accordo di Parigi (2015, ratificato da 196 governi il 22 aprile 2016). E il nuovo capitalismo delle fonti rinnovabili, dove lo mettiamo? Anche loro si cibano di plusvalore, cioè dello sfruttamento di una forza lavoro più avanzata, più tecnologica ma sempre sfruttamento. Potrei richiamare in causa il, spesso negletto, “portato progressivo del Capitale” di marxiana memoria, ma mi limito a predicare che se dobbiamo morire capitalisti, come Ruffolo indica, almeno combattiamo per quelle forme di capitalismo che liberano nuove energie e che nuocciono di meno all’uomo e all’ambiente.
Che remissività, che resa! Nessuna resa, ma poi, mi scusi, dove stava lei, insieme a tantissimi altri che non ricordo accanto, in quel periodo, forse un decennio, quando per davvero si poteva incidere assai significativamente sullo “stato presente delle cose”? E ancora racconta al nipotino l’epica di quelle volte che ha inalato l’acre odore di un candelotto lagrimogeno della polizia? Quelle volte, plurale? Rari nantes in gurgite vasto. © RIPRODUZIONE RISERVATA