Luciano Pavarotti interpreta Radames alla Scala nel 1985; sotto il titolo, la prima del Don Carlo di Giuseppe Verdi all’apertura della stagione 2023-2024 della Scala di Milano

Da assiduo frequentatore dei teatri lirici nazionali e internazionali, Vittorio Emiliani tratteggia qui alcuni cambiamenti della nostra grande tradizione musicale, sulle e dietro le quinte. Dalla quasi idolatria delle grandi voci a scapito della messa in scena, al graduale prevalere − oggi normale − della regia teatrale sulla direzione musicale. «Dove sono finiti i Gavazzeni, i Votto, i Pidò? Si riuscirà a trovare un giusto mezzo? Oggi come oggi non mi par facile. Anche se il Don Carlo televisivo ci ha rinfrancato. Un fiore isolato per ora… Lo Stato finanzia sempre meno la cultura (con questo incredibile ministro Sangiuliano poi…)». Doversi rivolgere pressantemente a sponsor privati genera risultati che, d’altronde, pesano sulle stesse scelte artistiche


◆ L’articolo di VITTORIO EMILIANI

Sono stato per anni un frequentatore alla Scala, al Comunale di Bologna o all’Opera di Roma e pure a Spoleto, un assiduo dell’opera lirica da Monteverdi a tutto il Seicento e Settecento serio, lirico e buffo, ovviamente alla prima turbinosa parte dell’Ottocento con Bellini, Donizetti, Rossini e Verdi fino ad un Falstaff gustato a Salisburgo col vecchio Mariano Stabile e un Rodolfo Panerai come Ford baritono di grande voce e spessore e al Guillaume Tell della Scala che esige due supertenori. Il resto del cast era del più alto livello a cominciare da Desdemona (Mirella Freni) e dalle Tre comari di Windsor naturalmente Nan Merriman in testa. Fino a Nannetta e a Fenton.

Ho assistito negli anni Sessanta e Settanta al graduale prevalere però − oggi normale − della regia teatrale sulla direzione musicale. Dove sono finiti i Gavazzeni, i Votto, i Pidò? Quest’ultimo ancora in attività dirige stabilmente all’estero fra Londra, Bruxelles e Lucerna. Un melodramma che più volte ho sentito e visto alla Scala cioè il verdiano “Un ballo in maschera”, cavallo di battaglia del grande Pippo Di Stefano con diverse protagoniste di qualità e una maga Ulrica all’altezza della breve intensa parte come Miriam Parazzini. E magari tre comprimari scaligeri affiatatissimi come i congiurati che muovono i “passi spietati sull’orrida via” (il libretto di Salvatore Cammarano mira molto agli effetti noir).

Arturo Toscanini

Col prevalere delle registe e dei registi abbiamo assistito anche al prevalere del teatro in veste odierna sulla musica e sul canto. Certo fra fine Ottocento e Novecento si era assistito ad una quasi idolatria delle grandi voci a scapito della messa in scena. Si riuscirà a trovare un giusto mezzo? Oggi come oggi non mi par facile, ripeto. Anche se il Don Carlo televisivo ci ha rinfrancato. Un fiore isolato per ora… Anche perché lo Stato finanzia sempre meno la Cultura (con questo incredibile ministro della Cultura Sangiuliano poi…) e deve rivolgersi pressantemente a sponsor privati con risultati che pesano ahinoi sulle stesse scelte artistiche. 

Non vi dico poi dei restauri dei tanti Teatri (circa 800 dal Barocco al primo Novecento) molti dei quali neoclassici o tardoneoclassici. Mi è parso insulso e deprimente il rifacimento con coloretti pastello del bel Sociale di Voghera 1842 di Gioacchino Dell’Isola dove il ventiduenne Arturo Toscanini aveva diretto una stagione nel 1899 con Aida e Favorita, affrontando pure in un duello alla pistola un ufficiale amante della primadonna al quale aveva dato furente del “pagnottista” della locale Caserma di Cavalleria capace di mille uomini e mille cavalli (più stallieri, calzolai, staffieri,  cuochi, vivandiere, ecc.). Per fortuna il cane della pistola dell’ufficiale alzata all’alba sui Prati della Cascina Gerlina venne tranciato di netto dal primo colpo e il duello fu interrotto senza vinti né vincitori e soprattutto senza danni per il focoso grande Arturo Toscanini. Malmenato a Bologna fuori dal Comunale da un gruppo di squadristi, fu per quasi vent’anni in esilio a New York con qualche esibizione estiva a Lucerna dove si riversavano da Milano, schedati al confine dall’Ovra fascista, i suoi ammiratori, come mi raccontava Camilla Cederna che era grande appassionata di musica e proprietaria di un palco alla Scala ereditato da una zia paterna la quale, abitando a pochi passi, vi si recava con una elegante vestaglia da notte e artistiche pantofole.

Mirella Freni e Placido Domingo in “Fedora” di Umberto Giordano. Metropolitan Opera, New York, 20 settembre 2002

Ci salutammo con Camilla simpaticamente alla prima di una attesissima Aida con Pavarotti che debuttava come Radames e che già all’inizio doveva affrontare quasi a freddo “Celeste Aida” emozionandoci tutti. Alla fine fui ammesso con Annarita fra i fans che volevano salutarlo e nell’abbraccio mi resi conto che restavo …a metà della panza. Lo avrei poi ascoltato in concerto  anche in Turandot e in quel terribile finale pucciniano dove cavò fuori il meglio di sé e di quelle sue purissime, maestrali mezze voci. Come la sorella “di latte” Mirella Freni splendida protagonista sempre alla Scala di uno straordinario Otello verdiano con Placido Domingo nel ruolo maschile. Un invecchiato e quasi cadente condottiero della Serenissima sulle mura di Famagosta. Bravissimo come cantante e come attore. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Direttore onorario - Ha cominciato a 21 anni a Comunità, poi all'Espresso da Milano, redattore e quindi inviato del Giorno con Italo Pietra dal 1961 al 1972. Dal 1974 inviato del Messaggero che ha poi diretto per sette anni (1980-87), deputato progressista nel '94, presidente della Fondazione Rossini e membro del CdA concerti di Santa Cecilia. Consigliere della RAI dal 1998 al 2002. Autore di una trentina di libri fra cui "Roma capitale Malamata", il Mulino.

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