Governo giapponese e Tepco sostengono che non c’è spazio per altre cisterne, oltre alle 1000 che già raccolgono l’acqua contaminata, e la contaminazione dovuta solo al trizio non dovrebbe preoccupare. Ma l’esercente della centrale racconta balle, avallate dalle autorità pubbliche. Nelle cisterne ci sono, infatti, ben 62 radionuclidi, fra cui carbonio 14, cobalto 60, iodio, cesio e plutonio. In più tira anche sui costi della decontaminazione. Lo aveva già fatto con il muro di protezione dell’impianto, alto poco più di sei metri per risparmiare sul cemento: dalla serie storica degli tsunami nell’area, noto alla stessa Tepco, risultava un’onda d’urto che un secolo prima aveva superato i 10 metri. Ora tutto è perdonato e l’Agenzia internazionale per l’energia atomica autorizza il Giappone a scaricare tutto nel Pacifico …però gradualmente. Tutto è concesso, se di mezzo c’è il nucleare

Ripubblichiamo l’articolo a firma di Massimo Scalia uscito sul magazine “Italia Libera” n. 7 del 15 maggio 2021. Martedì 4 luglio 2023 l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea), un’organizzazione autonoma all’interno del sistema delle Nazioni Unite, ha dato il via libera allo scarico graduale nel Pacifico delle acque contaminate stoccate sin qui nella centrale atomica. Già tutto scritto da noi due anni fa
L’analisi di MASSIMO SCALIA, fisico matematico
LE SETTIMANE SCORSE (aprile 2021, ndr) furoreggiava il problema dello sversamento nell’Oceano Pacifico, a partire dal 2022, dell’acqua contaminata per il raffreddamento dei “noccioli” dei tre reattori che hanno subìto il meltdown a Fukushima [nota 1]. Vale ancora parlarne visto che, mettendo da parte i cenni di sdegno di coloro che amano trasalire davanti alle nequizie del capitalismo – poverelli, non se ne erano accorti quando sostenevano la scelta nucleare –, a far velo all’informazione corretta continuano a essere le balle della Tepco, la società elettrica esercente la centrale nucleare di Fukushima, costantemente avallate dal Governo giapponese.
Come peraltro era successo ai tempi della catastrofe, è una vicenda intessuta di sciatteria progettuale – il combustibile di alimentazione degli auto generatori elettrici, spazzato via sul pavimento dall’onda dello tsunami, non poté innescare l’intervento delle pompe ausiliarie per il raffreddamento dei noccioli – e di vera e propria venalità. Infatti il molo di protezione era stato costruito con un’altezza di poco più di sei metri, per risparmiare, quando alla stessa Tepco risultava ‒ dalla serie storica degli tsunami nella stessa area ‒ un’onda d’urto che, un secolo prima, aveva superato i 10 metri.
Governo e Tepco sostengono che non c’è più spazio per altre cisterne, oltre alle 1000 e più che già raccolgono l’acqua contaminata e, in fin dei conti, la contaminazione dovuta solo al trizio non dovrebbe preoccupare più di tanto. E poi, quale altra soluzione se non scaricare l’acqua, “decontaminata” ovviamente, a mare?
Già quest’ultimo interrogativo riconduce alla perdurante inadeguatezza della Tepco. Il sistema di decontaminazione dei liquidi si è rivelato, infatti, una bufala. La tecnologia usata – Alps – garantirebbe a valle della decontaminazione livelli di radioattività inferiori a quelli previsti dagli standard richiesti per consentire il rilascio dei vari radionuclidi nell’ambiente. Peccato che il 70% dell’acqua “decontaminata” contenuta nelle oltre mille cisterne ecceda quei valori, come afferma un documento (febbraio 2020) di una sottocommissione del Meti (ministero Economia, Commercio e Industria) giapponese, istituita per affrontare la questione dell’acqua ritrattata da Alps [nota 2]. Questa débâcle è tutta ammantata dei colori del Sol levante, perché a suo tempo fu rifiutata una tecnologia americana in favore della Hitachi e della Toshiba (settore nucleare), entrambe sprovviste di significative esperienze nel ritrattamento di acqua radioattiva [nota 3].
Ma a che cosa è dovuto lo scarto tra le performances previste per il sistema Alps e il livello di radioattività che non consente di immettere nell’ambiente le acque ritrattate? La capacità di Alps di filtrare varrebbe per i radionuclidi presenti eccetto che per il trizio, «other than tritium», e il responsabile si identifica chiaramente nel trizio [nota 2]. Ma allora la Tepco non avrebbe tutti i torti: la vita media di questo radionuclide non arriva a diciotto anni, e soprattutto il suo tempo di vita biologico nell’organismo dura assai meno: diciassette giorni. E in tutto il mondo ogni centrale nucleare operativa scarica a mare decine di terabecquerel/anno; i reattori ad acqua pressurizzata ‒ pwr ‒, lo fanno molto di più dei meno diffusi bwr ad acqua bollente. Per non parlare degli impianti di riprocessamento (Sellafield, La Hague). Scarichiamo a mare, allora!
Nell’agosto del 2020 la Tepco ha però faticosamente ammesso che nell’acqua contenuta nei tanks c’è il carbonio-14, mentre solo due mesi prima il ministro degli Esteri giapponese aveva tranquillamente affermato che il sistema Alps consentiva di immagazzinare nei tanks acqua non contaminata, infischiandosene della raccomandazione della già citata sottocommissione a non fare simili affermazioni. Al di là del “patriottismo” del Governo, il sistema Alps ha obbligato la sottocommissione a «distinguere con un asterisco l’acqua nelle cisterne, che va sottoposta a ulteriore “purificazione”, da quella che soddisfa, tranne che per il trizio, gli standard regolatori». Nel caso dello stronzio l’acqua contaminata ha una sua allocazione a parte, ma vi si trova in una quantità 10.000 volte superiore a quella consentita per il rilascio nell’ambiente, affermava due anni fa Ken Buesseler – un biochimico marino di un istituto oceanografico indipendente Usa (Wohi) –, analizzando i dati forniti online dalla stessa Tepco.
Che cosa è stato fatto finora su queste criticità? E, al di là della complessità delle operazioni e delle perdite che hanno obbligato a sostituire molti tanks con altri appositamente saldati, resta l’interrogativo di fondo su quale sia per davvero l’efficienza di decontaminazione di Alps rispetto allo spettro dei ben 62 tipi di radionuclidi presenti.

Entrando nel dettaglio, riguardo il carbonio 14, vediamo che con la sua vita media di 8267 anni, la sua capacità di interagire con tutta la materia vivente e il suo fattore di concentrazione di 5000 nei pesci e nei molluschi diverrebbe, ove introdotto nell’ambiente, la maggiore sorgente di una dose collettiva non solo regionale, ma tenendo conto delle correnti oceaniche, anche globale [nota 3]. E un’analoga valutazione andrebbe fatta rispetto ai fattori di concentrazione di tutti i radionuclidi presenti, dal cobalto 60 agli isotopi dello iodio, del cesio e del plutonio. Non stupisce che vari organismi di controllo, sia statunitensi che canadesi, stiano da anni monitorando lungo le coste occidentali del Pacifico le concentrazioni radioattive dei radionuclidi provenienti da Fukushima [nota 5].
E che risultato hanno conseguito i piani della Tepco per impedire «il flusso a mare delle acque sotterranee attraverso il basamento della centrale e gli edifici turbine», che obbligava la società elettrica a pompare via centinaia di tonnellate di acqua al giorno anch’essa contaminata? A questo ritmo si accumulerebbe entro il 2030 oltre un milione di tonnellate di acqua contaminata, tanta quanta, all’incirca, quella già presente nelle cisterne. È indubbio che problemi di queste dimensioni costituiscano una grande sfida anche per una società avanzata come il Giappone. Altrettanto indubbio è che Tepco e governo giapponese abbiano dato il peggio in tutti questi anni.
Il tutto è coronato dal fatto che il previsto sversamento a mare, avversato non solo da pescatori e militanti giapponesi ma anche dai Paesi più direttamente interessati come Corea del Sud e Cina, è presentato come una prima fase del decommissioning dei reattori di Fukushima. Senza vergogna per il pregresso, Governo giapponese e Tepco continuano nella politica di minima spesa a danno di tutti, compatrioti inclusi. I diritti umani poi li lasciamo all’Unhr, che li ha rivendicati, proprio in rapporto alla vicenda dell’acqua contaminata, a difesa del caleidoscopio di comunità interessate e il cui sostentamento viene dal mare [nota 3].

Possiamo però dormire sonni tranquilli perché su tutto vigila l’Iaea, proprio quella che dopo Cernobyl inventò la distinzione tra «catastrofe locale» (Three Miles Island, 1979) e «catastrofe globale» (Cernobyl, Fukushima). Il suo direttore generale, Rafael Mario Grossi, quasi a tagliar sul nascere le critiche al programma giapponese di smaltimento delle acque contaminate nell’oceano, ha affermato in proposito il 13 aprile scorso che «il metodo usato è tecnologicamente fattibile e in linea con la pratica internazionale. Discarichi controllati di acqua radioattiva in mare, secondo specifiche autorizzazioni regolatorie, sono routinari in tutto il mondo per le centrali nucleari operative».
E gettando il cuore oltre l’ostacolo ha dichiarato che «la gestione dell’acqua, incluso lo smaltimento dell’acqua trattata in modo sicuro e trasparente con il coinvolgimento di tutti gli stakeholder, è un’importante chiave per la sostenibilità di queste attività di decommissioning» [nota 6]. Ma di che sta parlando il mattacchione? Del modo di operare della Tepco e del Governo giapponese che hanno dato, in questi dieci anni così brillanti, prove di affidabilità tecnologica e di gestione umanitaria?
La “crisi dell’acqua contaminata” potrà trovare soluzione, forse ancora nella stessa area della centrale [nota 4]. Ma anche al di fuori del sito della centrale esistono aree a bassa densità demografica dove quell’acqua può essere trasportata e custodita in strutture preparate ad hoc, come è già successo per gli enormi quantitativi del materiale di scoticamento dei suoli contaminati. Certo, il trasporto dell’acqua contaminata tramite condotte e veicoli deve rispettare i criteri regolatori dei trasferimenti di materiali radioattivi e ottenere il consenso delle comunità locali, ma questi sono i fardelli che porta con sé l’opzione nucleare. Soprattutto, il complesso delle operazioni avrebbe dei costi rilevanti; e priverebbe Tepco, Giappone e industria nucleare della “bella figura” di aver avviato la prima fase del decommissioning del disastro di Fukushima in modo così semplice e “cheap”. © RIPRODUZIONE RISERVATA