◆ L’analisi di MAURIZIO MENICUCCI
► Meglio un uovo oggi che una gallina domani, predicavano presunti saggi quando, proprio ieri, e molti ancora oggi, eravamo convinti che le galline e le uova fossero variabili indipendenti e gli adagi fossero giusti per definizione. Applicato al pianeta che abitiamo, è senza ombra di dubbio il proverbio più smentito della Storia, come dicono le troppe, sempre più ingovernabili emergenze ambientali. Non minore, tra questi disastri, anche se meno familiare al grande pubblico preso all’amo dalle false campagne sul ‘filetto di mare sostenibile’, c’è la distruzione portata dalle reti a strascico, proprio quel tipo di pesca che è più vicino al concetto di spremere subito tutto il possibile dal mare, anche a costo di renderci impossibile il futuro.
Altrettanto magra, però, può dirsi la vittoria dell’ambiente, perché se già il buonsenso suggerisce la pericolosità di queste reti, oltretutto così poco selettive da costringere a buttare via gran parte delle catture perché invendibili, gli studi sul campo confermano che lo strascico, anche senza scosse elettriche, sarebbero da abolire senza perdere altro tempo. E non solo per la quantità di organismi prelevati, ma per tutta una serie di effetti indotti nella colonna d’acqua al di sopra dei solchi che incidono per chilometri il fondo marino. Alcune campagne internazionali, condotte negli ultimi vent’anni nell’Egeo e sulla ‘Scarpata Catalana’, nel Mediterraneo Occidentale, e coordinate da Antonio Pusceddu, dell’Università di Cagliari, e Roberto Danovaro, dell’Università Politecnica delle Marche, indicano come particolarmente insidioso il sollevamento dei sedimenti. «A bassa profondità – riassume Pusceddu – l’azione di aratura dello strascicante sconvolge la chimica del fondale e dell’acqua e influisce sull’assorbimento della luce, danneggiando a molti livelli, l’intera piramide alimentare, dai più piccoli organismi ai grandi pelagici».
Ma la pesca è ancora oggi una guerra, dell’uomo con l’uomo e dell’uomo col mare. E tra il comprendere e il cambiare comportamenti, c’è di mezzo un altro mare, quello delle abitudini, specie quando si saldano con gli interessi industriali delle grandi flottiglie. Così, nonostante gli allarmi, si va avanti come niente fosse a spazzare le ultime uova che sarebbero diventate galline, mentre la Scienza ricorda che, soprattutto nel Mediterraneo, bacino piccolo e chiuso, di notevole biodiversità, ma scarse quantità, l’overfishing ha già superato di 4 o 5 volte la capacità riproduttiva di numerose specie. In altre parole, se volessimo tentare di salvare il pesce e la pesca, dovremmo prelevarne un quarto, o un quinto, di quanto facciamo ora.
Della decina di ‘Fisherys Resctricted Area’ individuate nel Mediterraneo, una, la Fossa di Pomo, tra Croazia e Abruzzi, è stata istituita nel 2017, grazie alla paziente mediazione degli attivisti di MedReact. Dopo tre anni di ’prova’, il clamoroso aumento delle prede tirate su intorno alla Fossa – soprattutto, naselli e scampi – e delle loro taglie, anche per l’arrivo di pesci predatori, ha convinto i pescatori di entrambe le sponde. Dapprima ostili all’iniziativa, si sono espressi per la sua definitiva riconferma. Sulla scorta del successo, una seconda nursery è in ‘via di concertazione’ nel Canale di Otranto, e una terza sta per essere proposta da MedReact nel cosiddetto Mammellone, al largo della Tunisia, contesissima cornucopia di gamberi e gamberoni.
Ma il mare non è solo vasto: è soprattutto profondo, e a partire dai 200 metri, anche se ne abbiamo tracciato mappe geografiche piuttosto precise, lo conosciamo poco. «Meno di Marte», come ama dire, e poi dimostrare, Roberto Danovaro, nelle sue conferenze. Il paragone sembra esagerato, ma non è. Se si pensa alle condizioni di temperatura, di pressione e di luce, siamo davvero in un altro mondo, grande il doppio di quello su cui poggiamo i piedi, che ora stiamo cercando di decifrare con una nuova tecnica di censimento della vita. È quella del Dna ambientale, che permette di risalire alle specie presenti isolando e amplificando il materiale genetico dei loro residui nelle matrici ambientali. Il Dna raccolto sui fondali oceanici dimostra che gli abissi non sono affatto sterili come il buio e le condizioni estreme facevano supporre. Ne parleremo domani. — (1. continua) © RIPRODUZIONE RISERVATA